Le prassi internazionali, il primo elemento di legittimità

Come ogni innovazione, anche le Assemblee dei Cittadini sono state da prima sperimentate, applicate in vari contesti con diverse finalità in molte parti del mondo, e soltanto in seguito codificate. Ad oggi, nessun Paese al mondo prevede le Assemblee dei Cittadini nella propria Costituzione. Eppure, sono innumerevoli ed in costante aumento – come recentemente evidenziato dal rapporto OCSECatching the deliberative wavegli Stati, le regioni, i territori e le comunità che ricorrono allo strumento delle Assemblee dei Cittadini, istituendo esperienze ad hoc, seguendo di volta in volta prassi e consuetudini concretizzatesi a livello internazionale da un ventennio a questa parte. Allo stesso tempo, sono ancora poche – ma esistono le realtà dove le Assemblee dei Cittadini da prassi si sono fatte legge, norma, istituzione. Dove, in sostanza, non si è verificato altro che un “adattamento normativo” a quella che è ormai una pratica democratica consolidata. 

Tutto questo per dire che i presupposti giuridici delle Assemblee dei Cittadini si ritrovano in prima istanza nelle prassi e nelle esperienze internazionali

Non vi è necessità alcuna che il diritto scritto abbia già previsto e codificato qualcosa per far sì che questo qualcosa venga ritenuto legittimo. Altrimenti le Assemblee dei Cittadini, così come ogni altra innovazione nella storia, non sarebbero mai arrivate ad essere considerate “normalità” dalla legge.

I presupposti giuridici

Ciò premesso, possiamo comunque riscontrare dei presupposti giuridici per le Assemblee dei Cittadini nell’ordinamento dell’Unione Europea e dello Stato italiano. In particolare:

  • L’articolo 10.3 del Trattato di Lisbona, per il quale «ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini».

 

  • Le raccomandazioni della Commissione europea del 12.12.2023 circa “la promozione dell’allargamento di un’effettiva partecipazione dei cittadini e delle organizzazione della società civile nei processi di policy-making pubblico”.
  • La “Carta delle città europee per uno sviluppo durevole e sostenibile”, approvata dai partecipanti alla “Conferenza europea sulle città sostenibili” tenutasi ad Aalborg, Danimarca il 27 maggio 1994, la quale prevede espressamente strumenti partecipativi per città sostenibili. In particolare, ai punti I.13: «Esse (le città) fonderanno pertanto la loro azione sulla cooperazione fra tutti gli attori interessati e faranno sì che tutti i cittadini e i gruppi interessati abbiano accesso alle informazioni e siano messi in condizioni di partecipare al processo decisionale locale» e I.14: «[…] nonché meccanismi che contribuiscano ad accrescere la consapevolezza dei problemi e prevedano la partecipazione dei cittadini».
  • L’articolo 3.2 della Costituzione italiana, che riconosce alla Repubblica – della quale fanno parte tanto lo Stato quanto le Regioni – il compito di permettere «l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
  • L’articolo 97.2 della Costituzione italiana, dove si fa riferimento all’imparzialità dell’amministrazione. Imparzialità che si ottiene coinvolgendo tutte le parti in causa, aprendo alla discussione e al confronto, specialmente sui grandi temi di interesse pubblico e di lungo termine. Possiamo infatti sostenere che la partecipazione rappresenti uno strumento di equilibrio, uno stabilizzatore che non sopisce, bensì gestisce e previene il conflitto. Inutile ricordare come la partecipazione dei cittadini consenta di raggiungere decisioni più condivise, motivate e mirate ad individuare il bene pubblico.
  • L’articolo 118.4 della Costituzione italiana, che recita: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

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